giovedì 27 agosto 2015

Io non metto le cuffie

Non so perché ma questa settimana mi è capitato già due volte di dire a delle persone di correre senza cuffie.
Si, s-gureggio un po', neanche fossi un top runner.
Talvolta mi chiedo se questi miei consigli non richiesti non vengano presi come il "campione" da osteria di cui parlavo la settimana scorsa; la verità è che mi piace condividere, io sono un entusiasta e ogni scoperta mi sembra irrinunciabile.
Prendete le scarpe minimaliste: risolvevano tutti i problemi.
Poi mi sono un pelino moderato, ho capito che il minimalismo è utilissimo e vale la pena perseguirlo con costanza ma, talvolta, quando i percorsi sono lunghi ed impervi, è meglio dotarsi di un minimo di protezione in più per evitare di finire la propria misera esistenza senza le dita dei piedi.

Lo stesso vale per la musica.

Quando ho cominciato a correre sono partito con lo smarthphone infilato nella tasca dei pantaloni, cuffia armata e le canzoni preferite in loop. All'inizio ne bastavano tre o quattro ed ero bello che bollito.
Poi ho iniziato a correre più spesso e più a lungo e allora le playlist hanno richiesto maggiore impegno. Anche nel valutare il ritmo d'insieme: passare da una ballad di Mark Knopfler ai Cento Passi dei Modena City Ramblers può avere effetti deleteri sul tuo fisico.
Se non che, qualche mese dopo è arrivato il minimalismo. Il minimalismo predica di correre scalzi e per correre scalzi è piuttosto importante concentrarsi su come e dove si mettono i piedi.
Già: come e dove si mettono i piedi. Dovrebbe essere l'azione che il runner fa di più. La concentrazione come esercizio. Ecco allora che il movimento in corsa non è più solo un'espressione di potenza e resistenza, ma è un'esperienza di meditazione in continuo sviluppo.
In questa concentrazione la musica non ci sta.
Il cervello un po' ci prova, a portarti a cantare le canzoni che vuole lui, che sente lui, nonostante tutto. E questo va anche bene, se non altro perché potrebbe andare in loop per ore.
Ma se ad un certo punto pensi a come appoggi i piedi, a come stai muovendo le braccia, a come cade il sudore lungo la tua schiena e riesci a farlo per un bel po' di minuti, senza lasciarti distrarre, ecco, allora lì ti volti ed hai staccato tutti, perfino la fatica.

venerdì 21 agosto 2015

Osteria numero 1

Premessa: sono in una fase brutalmente snob. Il post potrebbe risultare antipatico. O anche no. Dipende se andate spesso in osteria. 

I quarant'anni mi hanno portato questa  vena salutista (assolutamente riparatoria) per cui la macchina la prendo il meno possibile. Stessa cosa cerco di inculcare nei figli: a piedi o in bici si gira meglio, non c'è da trovare parcheggio, ci si allena di più e si fanno muscoli come i supereroi (Captain America ha girato un sacco in bici, prima di quell'iniezione che lo ha gonfiato come un canotto), si prende aria buona e si inquina meno.
I miei figli, siccome li considero ne più ne meno che normali (e per fortuna, aggiungerei), in preadolescenza rifiuteranno questa e tutte le altre cose che gli diciamo: mangeranno merda, useranno il motorino anche per andare in bagno e godranno del loro fisico che si ricopre di strati adiposi.
Ma fino ad allora si gira a piedi o in bici. Punto!

Certo, tutto parrebbe da sogno. Fino al bar.
Al bar c'è sempre una macchina parcheggiata sul marciapiedi e non ci si passa né in bici né a piedi. Salvo scendere in strada e farsi stirare i pantaloni dal tir che passa immancabilmente proprio in quel momento lì.
Strana gente quella del bar.
Per primo ci vanno tutti i giorni, immancabile. Il momento cloux è quello prima di cena, l'ora dell'aperitivo. Anche se in molti non disdegnano neppure il dopo (e di solito ritornano).
Da questo punto di vista il bar è aggregazione e devo dire che un pelino li invidio perché sono ancora di quelli che cercano di vivere il paese nel senso più stretto del termine (avrà senso quast'ultima frase? Mah!?)
Il bello è che si trovano tutti e stanno là a parlare e bestemmiare fino ad ora di cena anche se apparentemente non hanno nulla in comune.
C'è il vecchietto ciompo: senza una gamba ed un occhio che gira con la motoretta elettrica. Una volta correvo e l'ho incrociato tutto riverso sul marciapiedi che cercava di raccogliere una bottiglietta. Sembrava abbastanza in difficoltà così mi sono fermato e l'ho raccolta io.
"Che casso ghin fasso?" mi ha chiesto quando gliel'ho porta.
"Pensavo la ghe servisse"
"No!" con aria seccata facendo spallucce.
Toh! Ad essere pure gentili.
Poi al bar c'è il tipo del quad. Il Quad secondo me è una delle cose più tamarre che ci sono in circolazione ma noto, ahimè, che è piuttosto diffuso.
Lo sport preferito pare essere quello di vestirsi da competizione internazionale di motocross, farsi mezz'ora sugli argini in cerca delle pozzanghere, imbarcare più fango possibile e poi fermarsi al bar a fare la coda da pavone con l'esercente russa.
Poi c'è il "campione" quello che sa tutto. Di solito è da solo e se ne sta in disparte su di un tavolino con un bicchiere di bianco bevuto a metà e un collanone d'oro su maglia nera attillata. Ha un udito finemente selettivo ed estremamente esercitato a captare qualsiasi conversazione nella quale, trovando lo spazio vuoto tra due interlocutori che manco Pelè tra Burgnich e Facchetti, si inserisce esordendo con l'immancabile: "Te spiego mi"
Le vittime preferite sono le signore che si fanno l'aperitivo ma anche i ragazzini che si bevono il cochino di ritorno dalla partita al parchetto.
Va da sé che lui sa tutto, dal cambio del pannolino alla campagna acquisti del Milan.

Poi c'è la donna tatuata. Non è che l'essere tatuata di per sé la connoti in qualche modo, e neppure che tutte le donne tatuate vadano sempre al bar, solo che quella del bar è sempre tatuata in modo abbastanza vistoso con motivi di dubbio gusto (tribali enormi, ritratti di capi indiani, scene di caccia che manco le grotte paleozoiche). La donna tatuata di solito la voce rauca dal fumo, bestemmia come un uomo ma la si distingue da lui perché fa molte più allusioni sessuali e perché, nonostante tutto, ha un modo molto femminile di tenere bicchiere e sigaretta con la punta delle dita.

Poi c'è il  telonato-furgonato (o caravan). È il professionista che si ferma per l'ultima ciacola prima di rincasare dopo aver lavorato tutto il giorno.
Il  telonato furgonato parcheggia in strada, bloccando parte della carreggiata e spesso mette le quattro frecce anche se sta dentro al bar tre quarti d'ora.
Ma secondo me non è scemo: il furgone ha immancabilmente scritto nome, cognome e attività svolta. Punta tutto sulla pubblicità, anche se un aggeggio che ti blocca la strada secondo me non è tutta sta pubblicità positiva.
Si evince, in ogni caso, che il professionista astemio non lavora un cazzo.

L'ultimo avventore tipo è il Suvvista.
Il Suvvista ha il SUV. Enorme!
Freud scriverebbe libri sulla necessità di comprarsi macchine così grandi, ma per sua fortuna (di Freud) è morto prima della moda dei SUV.
Il Suvvista non si ferma al bar al ritorno dal lavoro come il telonato-furgonato (o caravan). Lui va a casa, si lava e si tira di fino e prende il SUV appena lavato (come facciano i SUV ad essere sempre puliti rimane un mistero) e va al bar. Prende il SUV anche se abita dall'altra parte della strada. Siccome il posti in strada li ha occupati il telonato-furgonato (che lo batte sul tempo perché non va a casa a cambiarsi) lui parcheggia sul marciapiedi, sui gradini del bar o, al limite, dietro al bancone.
Perché il Suvvista aborra l'attività fisica, foss'anche di pochi passi.
Chissà se anche lui ha avuto un padre che gli rompeva le balle perché andasse in giro in bici o a piedi?


hai visto mai che vi rimane voglia di leggere, l'altro giorno stavo da genitoricrescono con tema Expo
Poi c'è sempre la possibilità di fare un giretto dalle parti di Occhio al Nikio a sostenere questi 10 folli che si vogliono correre la Venice Marathon

lunedì 10 agosto 2015

La sconfitta spiegata a mio figlio

Ciao, veh?
Tutto bene? Io si, torno or ora dalle ferie.
Ma non parlo di questo.
Ci eravamo lasciati quindici giorni fa con una gara da affrontare. Magari non ve ne frega un bel niente o magari vi è sfuggito ma avevo raccontato l'esito qui.
Esito infelice, a dire il vero, e che un po' brucia: mi sono ritirato dopo poco più della metà del percorso. Un piccolo infortunio al piede.
Ci pensavo, in questi quindici giorni, molto.
Non che una gara rappresenti chissà che cosa, nella mia vita, che da fare ce n'è lo stesso, e parecchio, anche!
Ma sarebbe mentire dire che non mi è importato.
Prima cosa ho ricominciato a mangiare. Mi sono detto: sono in ferie e va in malora anche la dieta. Ma le ferie sono un pretesto, solo che in un anno di dieta io non ho trovato ancora un modo più efficace per sfogare la frustrazione.
O meglio: ci sarebbe la corsa, ma se poi mi ritiro diventa frustrante pure quella, mentre una tavoletta di cioccolato ed un pezzo di parmigiano, vuoi mettere?
Non ti deludono mai.
No, nulla di devastante, ma credo che un paio di chili siano tornati a salutarmi per le vacanze. Quindi l'obiettivo del rientro è ricacciarli da dove son venuti.
Ma neppure questo è il vero scotto.
La cosa più dura è dire a casa che ti sei ritirato.
Silver, che per mesi mi ha dato del pazzo per il solo fatto di essermi iscritto, era più demoralizzata di me; che se la chiamavo prima di fare l'insano gesto, avrebbe saputo darmi qualche dritta per risolvere il problema.
Vabbè, pazienza, la prossima volta terrò presente che un medico in casa può essere utile anche nei trail.
Poi i figli, in particolare Jack che è tutto sua madre e non digerisce bene le sconfitte.
"Io non volevo che ti ritiravi" (non pretendo i congiuntivi da un bimbo di neppure 5 anni).
"Mi faceva molto male un piede e continuare significava magari non riuscire a camminare bene durante le vacanze e non fare cose belle insieme"
"Ma uffa, io non volevo che tu ti ritiravi"
"Nemmeno io mi volevo ritirare, ma in tanti si sono ritirati e anche io"
"Ma i tuoi amici si sono ritirati?"
"No, i miei amici sono riusciti ad arrivare"
"Ma allora perché tu no?"
"Perché io avevo male, appunto"
"..."
Lì per lì mi sembra convinto e non se ne parla più.
Ripenso ad un vecchio post, sull'eredità ingombrante che potremmo lasciare ai figli e mi dico che, almeno dal punto di vista sportivo, non avrò questo problema.

Poi un giorno andiamo a camminare in montagna, facciamo addirittura un pezzetto della gara, al contrario.
Ad ogni passo l'ammirazione di mia moglie pare aumentare: "Ma come avete fatto a fare questo in discesa sotto il dio di acqua che c'era quella notte?"
I ragazzi invece sono più per l'interesse balistico e si esaltano: "Tu qui riuscivi a correre?" "Qui correvi o camminavi?" "Superavi o ti superavano?"
Il tutto per dimostrarmi che hanno una gran bella gambetta; Maria ci stacca, fiera di aver capito come funziona la tracciatura dei sentieri e corricchia addirittura in salita. Pee sale come un gatto sulle creste di roccia, assicurandosi che la madre tenga il passo.
Jack invece tiene duro: come il padre non ha il fisico da scalatore ma un grande entusiasmo e fantastica di gare future fatte assieme, partendo di notte con la pila in testa e poi la mamma che ci aspetta tutti all'arrivo (con Pietro, che lui dice che di notte dorme e col cavolo che viene a correre in montagna).
Poi, dopo un paio d'ore di fatica, le gambe iniziano a cedere, è il momento di insegnare cosa significa tenere duro.
"Papi, io faccio come te: mi ritiro!"
Passatemi il parmigiano, va.

(non vi state dimenticando di fare un giretto di tanto in tanto sul nostro bel progettino Occhio al Nikio, vero?)